Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

24 giugno 2010

Per pensare alla Militarizzazione

Introduzione all'incontro del 26-27 giugno 2010 a Padova


 

"A lungo rimossa, considerata un tema storicamente superato, collettivamente tabuizzata, la guerra di nuovo ci accompagna e, seppure in uno scenario profondamente mutato, è stata riabilitata.(…) Nel mondo occidentale si è sviluppata e istituzionalizzata una cultura della pace: la guerra che si muove in nome delle vittime è una buona azione, una guerra di pace"

Nicole Janigro


 

"Non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di queta guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove."

Etty Hillesum


 

Volendo introdurre questo incontro ci siamo rese conto che il tema "militarizzazione" – individuato ad Orbetello come un tema da tutte sentito come prioritario - è estremamente vasto e complesso.

Anna Valente nella sintesi aveva scritto:
"Di militarizzazione abbiamo cominciato a parlare molto presto, e il tema ci ha accompagnate per tutto il tempo. Per militarizzazione non intendiamo solo la presenza di militari, armi, basi – che certo non dimentichiamo, dagli F-35 a Vicenza, a Napoli -; pensiamo anche alla militarizzazione dei territori e delle menti, l'occupazione degli spazi – fisici e no -, la repressione delle libertà, la sparizione delle priorità sociali".

Un'osservazione innanzi tutto: è dall'incontro di Valencia che continuiamo a riproporre questo tema; ne abbiamo discusso in più occasioni, c'è stato un incontro specifico a Napoli nel 2008, se ne è discusso anche a Torino nel 2009, abbiamo organizzato una manifestazione a Vicenza con le donne della città, eppure non siamo riuscite ad abbozzare una proposta che coinvolgesse tutti i gruppi in un lavoro comune per approfondire, attualizzare, concretizzare, comunicare la militarizzazione.


 

L'incontro di oggi si pone l'obiettivo di preparare un incontro nazionale che risponda a queste esigenze. Dobbiamo quindi cercare di individuare alcuni aspetti di questo tema vasto e complesso che ci sembrino prioritari su cui concentrarci.


 

Nel tentativo di articolare delle proposte di lavoro vogliamo tenere presente quanto avevano scritto le DiN di Udine sulla necessità di un ripensamento del nostro essere Donne in Nero alla luce dei cambiamenti socio-politici-economici dell'ultimo decennio:

"Gli eventi che hanno riguardato il nostro paese nell'ultimo decennio - dal crescente coinvolgimento nelle guerre globali all'avvento di una destra di governo autoritaria e razzista, dal progressivo deteriorarsi del sistema della rappresentanza al liquefarsi dei partiti della sinistra -  ci pare abbiano segnato la fine di un ciclo, di cui come DiN dovremmo prendere atto. La nostra nascita come movimento è avvenuta in un contesto storico diverso. Le prospettive politiche e le convinzioni che ci animavano negli anni '90 del Novecento, le pratiche, i linguaggi, gli stessi slogan usati nelle manifestazioni di piazza sono ancora validi in uno scenario così radicalmente mutato? Non andrebbe riconsiderato, problematizzato, arricchito, comunque discusso il nostro profilo? Ci sembra che all'interno della Rete italiana manchi l'esigenza di una analisi su un percorso compiuto, come se il nostro esistere potesse esprimersi attraverso l'inerzia e la riproposizione del noto e del già sperimentato". 


 

Vogliamo tentare di porre degli interrogativi, per capire quali sono più urgenti e su cosa ci dobbiamo soffermare, consapevoli della necessità di comunicare e mettere a confronto le nostre riflessioni e proposte con quelle che verranno da altre, ad es. le donne di Napoli, Roma e L'Aquila, che si riuniranno il 6 luglio sempre in preparazione dell'incontro nazionale, e le donne di Ravenna che stanno lavorando sul "militarismo, con un'ottica alle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione e dal liberismo e con una nuova attenzione al discorso sui 'beni comuni' fra cui noi mettiamo anche la pace" e continuando a seguire il discorso sulle spese militari con le ricadute sulle spese sociali.


 

La nostra proposta di lavoro è:

1. dedicare questo sabato pomeriggio a comunicarci le nostre analisi su vari aspetti del tema generale e su esperienze di contrasto alla militarizzazione;

2. domenica concentrarci sulle pratiche e su percorsi possibili per noi Donne in Nero.

Per introdurci nel tema abbiamo preparato una serie di interrogativi che ci aiutino nella discussione. Siamo consapevoli che questo elenco è sicuramente parziale e incompleto, ma pensiamo possa essere utile per iniziare:


 

- Come sono cambiate la guerra, il ruolo degli eserciti e la percezione della guerra?

Scrive Mariolina: "Gli attuali eserciti sono sempre più complessi e tecnicamente sofisticati. Per ogni singolo combattente ce ne devono essere altri 9 o 10 (12 o 13 per un tiratore scelto) che garantiscono logistica, infrastruttura, mantenimento, ricambi in prima linea. Su un'armata di 300.000 uomini 30.000 tra loro vanno realmente in combattimento, mentre tutti gli altri sono impegnati ad assicurare il funzionamento dell'umana macchina bellica. Inoltre le attuali guerre presuppongono contemporaneamente l'uso spropositato della forza e l'immediato intervento umanitario, politico, psicologico, commerciale. E' la guerra preventiva, eterna, umanitaria teorizzata dai neocons e theocons".

In un recente articolo di Danilo Zolo su Il Manifesto, recensendo l'ultimo libro di Alessandro Dal Lago – Le nostre guerre (1) – si parla di "processo di normalizzazione della guerra": "L'industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi, inclusi gli ordigni nucleari, sono sottratti a qualsiasi controllo della cosiddetta «comunità internazionale». E l'uso delle armi dipende sempre più dalle decisioni che le grandi potenze occidentali prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche. 
In questi anni, sentenze di morte collettiva sono state emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale". Chi vive in Occidente – continua l'autore - lontano dai luoghi di conflitto armato, non vede le sofferenze altrui, il martirio di intere popolazioni ed ha una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre.

La guerra ha quindi molte facce a seconda di chi la fa, da dove la si guarda, da come ci viene comunicata dai media. Tanto più considerando la caratteristica dell'asimmetria delle guerre globali di oggi: l'uso di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e potenti ha reso soverchiante il potere distruttivo degli aggressori e sottratto agli aggrediti ogni speranza di salvezza, anche se i conflitti rimangono insoluti e senza vincitori.


 

- Esiste una continuità tra le politiche della sicurezza e quelle militari? C'è mescolanza tra ambiti e competenze civili e militari nelle nostre città e nelle guerre?

Il processo di costruzione del nemico, necessario per scatenare un conflitto armato, viene messo in atto anche all'interno delle nostre società come modalità di gestione dei conflitti sociali (vedi la trasformazione del migrante da "straniero" a "clandestino" e quindi "criminale" e "nemico").

Anche l'uso privilegiato della violenza e della pulizia etnica di fronte a situazioni conflittuali si trasferisce dal globale al locale.


 

- Cosa significa militarizzazione del territorio, delle risorse naturali, della società, delle menti?

Intanto cosa vuol dire "militarizzazione" e cosa vuol dire "militarismo"? Quando possiamo dire che un territorio, una società sono militarizzati?

[Dallo Zingarelli:
militare = relativo alla milizia, ai soldati e alle forze armate; militarismo = esasperazione dello spirito e del formalismo militare; preponderanza dei militari e dello spirito militare nella vita di uno stato; militarizzazione = effetto del militarizzare, sottoporre a disciplina militare…, organizzare con sistemi militari, dotare di installazioni e strutture militari. Dal Devoto Oli: militare = attinente all'ambito strutturale e operativo delle forze armate; militarismo = l'asservimento della vita politica e delle funzioni e dei rapporti sociali e culturali agli schemi di una visione militare; atteggiamento nazionalistico che ritenga la guerra mezzo insìdispensabile a conseguire il prestigio politico nel mondo; militarizzazione = inserimento in un quadro costituito in base a esigenze o metodi di ordine militare]

Le spese militari italiane (missioni all'estero come l'Afghanistan, armamenti come F-35 ecc.), l'appartenenza alla NATO, la presenza di basi militari NATO o USA (anche con testate nucleari), la produzione e il commercio di armi, sono effetti o causa della militarizzazione? O entrambi?          

                                                       
 

- Donne, guerra, militarizzazione: quali connessioni? qual è la situazione attuale?

In un nostro intervento nel 2008 scrivevamo:

"La guerra sia che la subiamo sia che la facciamo, ci riguarda in quanto donne. Non solo perché le vittime delle guerre e delle sue conseguenze dirette e indirette, sia nella fase acuta sia nel post-guerra, sono moltissimo le donne (non occorre arrivare agli stupri etnici, basta la fatica nel creare, ricreare, mantenere la quotidianità, il minimo tessuto sociale della comunità), ma soprattutto perché la guerra, come modalità di risolvere i conflitti con la forza, è la più estrema espressione della struttura e cultura patriarcale (e questo sia per le sue modalità sia per come ne vengono costruite le premesse con la creazione del nemico di turno, il "diverso" da "noi"). Per questo le donne sono "estranee" alle strategie delle guerre. Analizzando le guerre dei nostri giorni, le donne in generale non sono guerrafondaie, ma nemmeno più pacifiste degli uomini, ma quello che emerge è proprio l'estraneità alle scelte, alle tematiche di guerra per la maggioranza delle donne; le eccezioni, che pur non si devono nascondere, assumono come proprio il modello maschile (la madre dell'eroe, la ragazza che vuole entrare nei reparti di combattimento…). Insomma tutta la storia, e in particolare le storie delle donne nelle guerre di questi ultimi anni, ci ricordano che nelle guerre le donne sono destinate a scomparire, o relegate ad un ruolo di riproduttrici di figli per la patria e di mogli di combattenti, o usate come corpi che forniscono piacere all'occupante ed anche all'occupato, o stuprate in maniera pianificata per la pulizia etnica, o quantomeno, se coinvolte direttamente nella gestione del conflitto, costrette a rimandare le loro rivendicazioni ad un futuro migliore indefinito. Tutto questo è stato ed è sotto i nostri occhi in Algeria, in Jugoslavia, in Afghanistan, in Palestina, in Iraq, in Cecenia, in Colombia, in tutte le guerre dell'Africa."

E ancora: "La scelta di stare dalla parte delle donne o meglio di privilegiare il loro punto di vista di genere, nasce dunque in primo luogo da queste considerazioni, dalla consapevolezza che la guerra come arma di risoluzione dei conflitti, economici, politici o etnici, usa le donne come oggetti contro il nemico riducendole in una situazione di totale controllo. Ma questa scelta di stare dalla parte delle donne è dovuta anche al riconoscimento della loro capacità, dimostrata in questi anni, di costruire dei ponti con altre donne, di superare i confini e di agire nei conflitti per cercare di trovare ciò che unisce, ciò che può essere un punto di partenza per ricostruire le relazioni delle società civili nei luoghi che sono attraversati da conflitti violenti, opponendosi con forza alla guerra e al militarismo, rifiutando la logica delle armi, del nazionalismo, della militarizzazione delle società, scegliendo di parlare in prima persona, assumendosi una responsabilità individuale di resistenza alla guerra e a tutto ciò che comporta in termini di distruzione, odio, esclusione".

Condividiamo ancora questa analisi? E' ancora valida o superata? Perché?


 

- Quali le nostre pratiche di Donne in Nero in relazione a questi temi?

Le difficoltà attuali si inseriscono nella crisi generale dei movimenti pacifisti, a nostro avviso riconducibile a più fattori, tra cui ci paiono importanti da una parte il senso di sconfitta dopo la guerra contro l'Iraq, dall'altra il non essere riusciti a creare consenso duraturo intorno ai loro principi, e soprattutto il deterioramento del clima politico e culturale.

Rileggendo con attenzione dei testi che ci sono parsi molto significativi [La specificità di genere nell'opposizione alla guerra di Enrica Panero, Laura Poli e Paola Porceddu in

La guerra non ci da pace, a cura di Carla Colombella, SEB27, Torino 2007; La rete delle Donne in Nero: tra capacità e limiti, tra locale e globale di Elisabetta
Donini in La nonviolenza delle donne, a cura di Giovanna Providenti, Libreria Editrice Fiorentina, 2006, e una raccolta di testi di Donne in Nero curata dalle Donne in Nero di Torino (2)], ci chiediamo:

- che cosa del pensiero e delle pratiche delle Donne in Nero rimane nei nostri gruppi?

- questo pensiero e queste pratiche sono davvero superati o li abbiamo svuotati del loro significato originale?

- quali altre pratiche più efficaci nel mutato contesto socio-politico-culturale proponiamo?

[Dalla sintesi di Orbetello: come declinare le azioni politiche in questo contesto cambiato? Ecco alcune indicazioni emerse dal dibattito, anche se potranno sembrare approcci particolari, parziali, possono essere utili:

- Sostenerci a vicenda: fare rete, cioè avere temi generali condivisi e azioni politiche specifiche a livello locale.

- Scegliere obiettivi piccoli nel locale, unirci per i grandi obiettivi.

- Riprendere spazi di parola, che sempre più si stanno restringendo.

- Fare controinformazione e testimonianza, con continuità.

- Imparare dalle donne dei luoghi difficili.

- Cercare un linguaggio migliore, una comunicazione più efficace verso l'esterno, evitare slogan che ossono apparire vuoti.

- Fare meno cose, ma con più partecipazione e interesse.

- Non sciogliersi in altri gruppi, ma inserirvi il nostro discorso.

- Essere di riferimento soprattutto per le donne.

- Lavorare anche sul linguaggio quotidiano.

- Usare di più gioia, creatività e poesia.

- Realizzare azioni pacifiste spiazzanti.

`


 


 


 

Note:

  1. Questo articolo ed altri apparsi su Il Manifesto del 16 maggio 2010 li potete trovare nella pagina creata da Jane su www.gmail.com dove si trova anche il testo di Mariolina "Mi piacciono i corpi addestrati".
  2. Anche i testi di Donini e la raccolta curata dalle Donne in Nero di Torino si possono trovare nello stesso luogo; il testo dal libro di Colombella non siamo riuscite a trasformarlo in file, inseriamo però una recensione dell'opera che offre senz'altro strumenti utili per la riflessione e per la pratica.

16 giugno 2010

Incontro di alcuni gruppi di Din il 26 -27 giugno a Padova

L'incontro fissato dopo Orbetello riguarda il tema della militarizzazione e le nostre riflessioni sul nostro agire nel mutato quadro politico internazionale. Chi ha idee da proporre può inviarle qui Ci proviamo?

Viaggio in Palestina: ecco il link dove potete leggere tutto il rapporto

DI RITORNO DA PALESTINA E ISRAELE - Giuliana e Marianita


 

Dal 19 al 27 aprile abbiiamo partecipato al viaggio in Israele e Palestina organizzato dall'Associazione per la Pace con Luisa Morgantini.

Molto tempo era passato dai nostri precedenti viaggi (Giuliana dal 2005 per l'Incontro internazionale delle Donne in Nero a Gerusalemme, Marianita da un viaggio a cavallo tra il 2000 e 2001, all'inizio della seconda Intifada).

E' stata una settimana pienissima, durante la quale abbiamo potuto partecipare a eventi importanti come la V° Conferenza internazionale per la resistenza popolare nonviolenta a Bil'in, e incontrare e visitare persone, gruppi, luoghi significativi.

Nei links alla fine potrete leggere tutto il racconto dettagliato del viaggio.

Ora vogliamo solo comunicare quello che più ci ha colpito.

Innanzi tutto un'impressione che ci ha sconvolto: la Palestina non c'è più, è stata un po' alla volta rosicchiata, inghiottita, divorata dal muro, dalle strade, dai checkpoint ma soprattutto dalle colonie che dominano il paesaggio della Cisgiordania, dove città e villaggi isolati tra loro affiorano come isole in un mare di occupazione. Anche Gerusalemme, "la santa", "la città della pace", è soffocata in una morsa di arroganza e sopraffazione che si fa cemento e muro e case demolite o rubate e nuovi insediamenti.

Ma se la Palestina sta scomparendo, i Palestinesi e le Palestinesi esistono e resistono: a Bil'in e nei comitati popolari di altri villaggi che hanno scelto la via della resistenza non armata, della lotta per i loro diritti portata avanti con tenacia nonostante gli arresti, le botte, le reazioni violente dell'esercito israeliano che non si vergogna di sparare contro civili disarmati, ferendoli e a volte anche uccidendoli; nella Valle del Giordano dove accerchiati da colonie che rubano la terra, l'acqua, la vita, continuano a cercare di coltivare la poca terra che ancora non gli è stata sottratta; a Nablus dove nel campo profughi di Balata o in città si organizzano attività per dare speranza di un futuro a bambine e bambini, ragazze e ragazzi che ancora sognano una vita "normale", a Hebron – soffocata da insediamenti che si insinuano nel cuore della città – dove si restaurano le vecchie case e si tenta di ridare vita al vecchio mercato.

E con le Palestinesi e i Palestinesi continuano a resistere e lottare anche quelle Israeliane e quegli Israeliani che ogni venerdì affrontano con i comitati popolari palestinesi i soldati di Tsahal a Bil'in e non solo, o a Gerusalemme est protestano al ritmo di tamburi di fronte alle case rubate dai coloni e protette dalla polizia.

Dedichiamo questo racconto a tutte e tutti loro, alla gente di Bil'in, di Nil'in e degli altri villaggi, alle famiglie di Sheik Jarrah rimaste senza le loro case, alle ragazze e ai ragazzi israeliani che li sostengono, a Fathy Khdirat che ci ha accompagnato lungo la Valle del Giordano, agli animatori del Yafa Cultural Center di Balata e della Human Supporters Association di Nablus, a Rauda Basir che continua a lottare per le donne e con le donne, alle ragazze e ai ragazzi di nablus e dintorni che hanno ballato e suonato per noi, a Nurit Peled e Rami Elhanan del Parents Circle che dalla consapevolezza del dolore traggono la forza di ascoltare l'altro e costruire insieme la strada lunga e tortuosa della pace; a Nayla Ayesh che è venuta con noi a Haifa da cui mancava da 15 anni, alle attiviste e agli attivisti del Massawa Center per i diritti dei cittadini palestinesi di Israele in Haifa e alle donne di Isha Isha e di Aswat sempre ad Haifa; ai Combattenti per la pace che abbiamo incontrato a Giaffa e in particolare a Liri che sogna di sposarsi a un check point; ai responsabili dell'Hebron Rehabilitatin Committee che con determinazione cercano di ricostruire il tessuto sociale del vecchio centro di Hebron, alle donne che lavorano e che hanno trovato rifugio nel Mehwar Center di Beit Sahour; a Nidé, a Tariq, a Sahaladdin, a tutte quelle e quelli di cui non ricordiamo il nome ma di cui non dimenticheremo il volto, la voce, il messaggio. A Luisa per la passione con cui continua a vivere tutto ciò nonostante il dolore che tutto ciò significa e a Cecilia per la sua gentile disponibilità.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

13 giugno 2010

Rapporto di un giornalista svedese sull’attacco alla Freedom Flotilla

Aftonbladet, 08.006.2010

UN'AGGRESSIONE AL DIRITTO INTERNAZIONALE

Mattias Gardell dopo il massacro a bordo del Mavi Marmara. Facciamo venire a galla la verità


 

Israele ha violato ancora una volta il Diritto internazionale. Questa volta attraverso la pirateria sanzionata dallo stato: molto al di fuori dei confini del paese i militari israeliani hanno attaccato un convoglio umanitario che trasportava materiale di costruzione, impianti di desalinizzazione, generatori e materiale medico alla popolazione di Gaza rinchiusa nella striscia.

Israel sapeva benissimo in cosa consisteva il carico e chi era a bordo. Ship to Gaza, alla pari degli altri partners della coalizione Freedom Flotilla, aveva seguito le norme burocratiche che regolano il traffico internazionale delle navi. Il carico era stato ispezionato dalle autorità doganali e tutti i passeggeri a bordo erano stati regolarmente registrati. Al momento di salire a bordo sono stati controllati i passaporti ed il bagaglio. Come avviene per un viaggio aereo all'estero, i viaggiatori hanno traversato metall detectors e hanno dovuto consegnare eventuali forbici da unghie e altri oggetti proibiti.

Io mi ero sempre immaginato a bordo della Sofia, la nave da carico che Ship to Gaza Svezia aveva comprato insieme con la nostra organizzazione sorella greca, ma mi è stato chiesto, insieme con la studiosa di Storia delle Idee Edda Manga di essere il nostro rappresentante a bordo della nave turca Mavi Marmara. E' stato su quella nave che i soldati di elite israeliani hanno assassinato nove passeggeri e abbattuto giornalisti che documentavano l'attacco. E' anche intorno a questa nave che si è centrato in gran parte il dibattito che è seguito. Che è successo in realtà sul Mavi Marmara?

A bordo c'erano 478 passeggeri provenienti da 32 paesi, Isra ele compreso. La varietà saltava agli occhi. C'erano ebrei, cristiani, mussulmani e atei,socialisti, liberali e conservatori; parlamentari, attori, musicisti e diplomatici riuniti in una coalizione arcobaleno di cittadini del mondo che avevano preso sul serio l'idea dei diritti umani e volevano contribuire a far cessare l'embargo che ha impedito ai cittadini di Gaza di ricostruire la loro società distrutta dalla guerra.

Di per sé tutto questo non ha nulla di radicale. Le Nazioni Unite, l'Unione europea e una lunga serie di stati democratici, tra i quali la Svezia, sono della stessa opinione e la Freedom Flotilla ha ottenuto di conseguenza l'appoggio della UNWRA, di Amnesty, Diakonia e altre organizzazioni per i diritti umani. Altrettanto mainstream era l'atmosfera a bordo. L'organizzazione di solidarietà turca IHH aveva sottolineato con enfasi la piattaforma politica sulla quale si erano accordati i partners della coalizione: l'azione era umanitaria e non appoggiava né Hamas né Fatah bensí il diritto di ogni singolo individuo ad una vita decente in libertà.

Nei media svedesi è circolata la voce, non empiricamente fondata, che IHH è un'organizzazione islamistica terroristica. Perché allora sia consentito alla IHH di operare in Turchia – dove le organizzazioni islamistiche sono vietate- o perché sia accettata come partner dall'ONU o da Amnesty, non viene chiarito.

In realtà c'è un solo paese al mondo che ha messo fuori legge IHH -Israele- con una decisione contro la quale è stato presentato ricorso in tribunali internazionali. IHH svolge attività di aiuto in 143 paesi, la maggioranza dei quali non sono musulmani.

E´stata la prima organizzazione di solidarietà ad essere sul posto a Haiti dopo il terremoto e ha aiutato New Orleans dopo l'uragano Katarina. Se si vuol capire che cos'è IHH, la si può vedere come il corrispondente musulmano di Diakonia: persone che credono che esiste un Dio buono e giusto che vuole che ci preoccupiamo del nostro prossimo. Per chi non è religioso la compagnia di persone cosí buone può a volte essere un po' faticosa, ma non è più pericoloso di cosí. Benché siano musulmani.

Il pericolo non veniva neppure dal Mavi Marmara. Il pericolo veniva da fuori. Con la protezione del buio della notte la nave è stata circondata da quattordici navi da guerra – corvette, cannoniere, navi di pattuglia, navi di attacco silenziose, un sottomarino, aerei telecomandati e quattro elicotteri Black Hawk. Era una sensazione di irrealtà. Personalmente avevo solo esperienze cinematografiche di battaglie navali e a lungo ho voluto credere che i militari erano lí solo per spaventarci e farci tornare indietro. Sapevano bene che non c'erano armi a bordo.


 

Altri non erano altrettanto convinti di me che la volontà di Israele fosse di evitare perdite civili. La marina di guerra ci aveva seguiti a distanza per molte ore, il che aveva dato il tempo di preparare una difesa. Se il peggio dovesse succedere. I giornalisti avevano indossato giubbotti antiproiettili, si tirarono fuori le giacche di salvataggio e la gente cominciò a riunire quello che trovava: estintori, tubi dell'acqua, i pali delle bandiere, i coltelli della cucina, cacciaviti e un piede di porco dalla stanza degli attrezzi.

Pensare di difendersi da uno degli eserciti meglio equipaggiati ed allenati del mondo con simili armi può apparire temerario ma non si disponeva di nient'altro.

Alle quattro e dieci ebbe inizio l'attacco. Dalle navi più veloci sparavano alla coperta con bombe a gas, bombe sonore e bombe splitter. Nel caos che si creò i sommozzatori d'attacco cercarono di abbordare la nave ma furono sciacquati via dai getti d'acqua dei tubi dell'acqua. Dopo ripetuti insuccessi venne l'attacco seguente dall'aria. Protetti da intense scariche di spari i soldati di elite vennero calati da un elicottero. Prima che il primo soldato mettesse piede a terra, cadde il primo difensore per uno sparo alla testa.

Dopo seguirono le scene che la Difesa israeliana ha mostrato al mondo. Soldati di elite armati con maschere sul volto contro giovani con giubbotti di salvataggio e bastoni. Tre soldati vengono messi a terra e disarmati, Alle pistole e alle armi automatiche vengono tolte le cartucce e poi sono buttate in mare. Se fosse stato un film con Bruce Willis avrebbe rivolto l'arma contro gli aggressori, fatto un giro rapido sul pavimento e sparato contro l'elicottero che sarebbe caduto in mare tra le esclamazioni di gioia degli spettatori.

Questa però era realtà. Nessun aggressore mascherato è stato ucciso ed il presidente della IHH Bulent Yildirim è intervenuto personalmente per impedire il maltrattamento di un soldato. Questo non lo possiamo vedere in TV dato che le immagini non sono state rese pubbliche. Neanche possiamo vedere il massacro che è seguito. La nave era piena di telecamere di sorveglianza e a bordo c'erano oltre 60 giornalisti. I giornalisti erano l'evidente bersaglio dell'eccesso di violenza per gli stessi motivi per cui il Mavi Marmara è stata la prima nave ad essere assalita: era strategicamente importante tagliare la comunicazione con il resto del mondo e prendere il controllo dell'informazione in modo che nessun racconto, se non quello del superpotere, raggiungessero il mondo.

Per questo spararono anche ai fotografi, per esempio a Furkan Dogan, un diciannovenne cittadino americano che studiava scienze sociali in Turchia. Stava fotografando quando gli spararono da dietro, una pallottola nella schiena e una nella nuca. Quando cadde rotolando per terra gli spararono di nuovo. In faccia. Complessivamente vennero uccise nove persone quella notte. La maggioranza giovani, ma non tutti. Cetin Topcuoglu aveva 54 anni ed era l'allenatore della nazionale turca di taekwondo. Gli hanno sparato da vicino ed è morto nelle braccia di sua moglie.

L'esercito israeliano sostiene che i loro soldati hanno sparato in autodifesa. Perché abbiano sparato alla gente alle spalle resta da chiarire, cosí anche perché l'autodifesa sia un diritto che spetta ai soldati israeliani armati ma non agli aggrediti Se si fosse trattato di un intervento poliziesco contro sospetti criminali era una cosa. Ma Israele non è la polizia dei mari del mondo e non ha nessuna giurisdizione su acque internazionali. Naturalmente Israele sostiene che si potevano applicare le leggi di guerra all'incontro con un convoglio umanitario ma non è un argomento che potrebbe reggere in un tribunale.

Secondo il diritto internazionale nessuno stato ha diritto di richiamarsi allo stato di guerra se non è stato esposto ad attacco armato. Il carico più tecnicamente avanzato che era a bordo della Freedom Flotilla erano le cinquanta sedie a rotelle con motore elettrico. Intende dire Israele che si temeva un assalto di sedie a rotelle? In violazione del diritto internazionale Israele ha allargato la zona di sicurezza estendendola fino a 68 miglia dalla costa di Gaza. L'assalto comunque è avvenuto al di fuori, non all'interno, di questa linea. E' iniziato a 105 miglia marine ed è terminato a 78 miglia marine dalla costa.

Anche se l'attacco fosse avvenuto nelle acque territoriali israeliane l'uso della violenza esercitato da un esercito deve essere in proporzione alla minaccia militare esistente e deve comprendere la protezione dei civili. Qui non c'era nessuna minaccia militare ed i soli ad essere attaccati erano civili. Come lettore comunque non devi credere ciecamente né a me né alla difesa israeliana. Esigi invece che venga fatta un'inchiesta indipendente che esamini tutti i film e le foto che sono state sequestrate e tutte le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti al massacro. Fai venire a galla la verità.

Mattias Gardell

Alternative alla violenza dalla Palestina


 

Dalla Coalizione delle donne per la pace (CWP) :

Solidarietà in Israele con Gaza e con la Flotilla della Libertà.

 
 

 
 

1. L'assedio di Gaza

 
 

La mattina presto di lunedì ci siamo svegliate con l'orribile notizia di questo raid israeliano contro i pacifisti sulla Flotilla Libertà per Gaza, che ha ucciso più di 10 persone e ne ha ferite alcune decine. Centinaia di militanti che si trovavano sulle navi sono ancora incarcerate dalle forze di sicurezza israeliane, in attesa di essere deportate. La flotilla trasportava 10.000 tonnellate di cibo, medicamenti e altri prodotti a Gaza, che è sotto assedio israeliano dal 2005 (con restrizioni più dure dal giugno 2007).

L'assedio, che aveva il fine di isolare e indebolire Gaza, è una punizione collettiva di una popolazione civile di 1,5 milioni di persone. Dall'inizio dell'assedio, la CWP l'ha denunciato pubblicamente reclamando il suo ritiro immediato. La comunità internazionale non può più restare senza fare niente – deve utilizzare tutti gli strumenti diplomatici e civili per fare pressione su Israele affinché metta fine all'assedio di Gaza, e per punire le autorità israeliane responsabili di crimini di guerra.

Venerdì 4 giugno, la Coalizione delle organizzazioni contro l'occupazione e i comitati popolari palestinesi faranno un'azione comune per ricordare i 43 anni dall'occupazione del giugno 1967 dei territori palestinesi. 43 anni di dominio, di oppressione, di segregazione, di costruzione di colonie, di furto d'acqua e di terre, di regime militare, di restrizione di movimento, di demolizioni di case, di arresti politici, di torture, di crimini di guerra ed espansione coloniale. Con questa azione vogliamo dire a Israele di togliere l'assedio di Gaza, di mettere fine all'occupazione e di fermare la separazione tra Palestinesi e Israeliani e tra i Palestinesi e le loro terre. Ci appelliamo ai nostri amici della comunità internazionale perchè tengano veglie di solidarietà nel mondo – manifestando contro l'assedio di Gaza, l'occupazione senza fine della Palestina e l'assalto mortale contro civili innocenti, che tentavano di rompere l'assedio.

 
 

2.  Solidarietà in Israele con la Flotilla della Libertà di Gaza

 
 

La Coalizione delle donne per la pace è solidale con il popolo palestinese e con i membri eroici della Flotilla della Libertà di Gaza. Malgrado i tentativi dei media israeliani e delle autorità pubbliche di presentare un sostegno unanime all'assalto illegale contro dei pacifisti internazionali, migliaia di Israeliani hanno manifestato contro in questi ultimi giorni.
Manifestazioni spontanee si sono tenute immediatamente dopo la notizia dell'assalto brutale contro la flotilla – ad Haifa, Nazareth,  Shefa-'Amr e altre città in Israele. Nello stesso tempo, 250 Israeliani sono arrivati nel porto di Ashdod, un'azione organizzata dalla Coalizione delle donne per la pace e altre organizzazioni israeliane per manifestare contro il brutale massacro e per esprimere la loro solidarietà con la flotilla e con il popolo palestinese. Lunedì sera ci sono state manifestazioni a Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e Um-El-Fahem. I manifestanti richiedevano un impegno internazionale per togliere l'assedio di Gaza. Altre manifestazioni si terranno per tutta la settimana in Palestina e Israele.

Prima del raid mortale, la CWP aveva reso pubblica una dichiarazione di sostegno alla flotilla:

http://www.shiptogaza.se/node/372

Ci piacerebbe condividere con voi alcune delle voci della CWP dopo il raid:

In un resoconto personale sulla resistenza israeliana all'attacco della flotilla, Inna Michael, coordinatrice Risorse e Sviluppo della CWP scrive: «Malgrado questo tentativo di ridurre al silenzio la critica, ci sono molti cittadini israeliani che protestano contro questo massacro e chiedono ai responsabili di rendere conto. La versione ufficiale dell'esercito e del governo è molto poco credibile, specialmente dopo aver imposto un blocco elettronico ai tentativi di informare sul raid. La comunità internazionale ha fatto così poco per far giudicare i responsabili di crimini di guerra commessi contro il popolo palestinese. Altri paesi si impegneranno di più per intervenire dopo che dei crimini sono stati commessi contro i loro stessi cittadini?».

(Si può leggere il resto del resoconto su: http://www.gaza-eng.coalitionofwomen.org/?p=220)

Eilat Maoz, la coordinatrice generale della Coalizione delle donne per la pace ha detto: «Il massacro di oltre 10 militanti è esclusiva responsabilità dello Stato d'Israele, che poteva certamente evitare di far scorrere il sangue inutilmente. L'assedio di Gaza e l'attacco di pirateria dell'esercito israeliano alle navi della flotilla – sono vere provocazioni. Quest'atrocità deve aprire gli occhi della comunità internazionale sui crimini commessi da Israele».

Areen Hawari, Balad, militante, membro della Coalizione delle donne per la pace e vicina alla parlamentare della Knesset Hanin Zoabi, che era su una delle navi, ha detto: «Se questo è quel che Israele è capace di fare a dei pacifisti, dei difensori dei diritti umani e dei membri del Parlamento, allora cosa non è capace di fare a dei civili sotto occupazione militare? Ora è venuto il tempo di risvegliare la lotta internazionale contro l'assedio di Gaza e l'occupazione.


 

Alcune interviste con donne della CWP nei media internazionali:

The National – Gli Israeliani sono scioccati ma non sorpresi

http://www.thenational.ae/apps/pbcs.dll/article?AID=/20100601/FOREIGN/705319825/1002

Maan News Agency – Militanti israeliani chiedono che le navi entrino a Gaza

http://www.myaguarnieri.com/2010/05/israeli-activists-call-for-ships-to-enter-gaza/

Christian Science Monitor – Dopo il raid israeliano, gli aiuti della Flotilla Libertà cominciano a diffondersi a Gaza
http://www.csmonitor.com/World/Middle-East/2010/0601/After-Israeli-raid-Freedom-Flotilla-aid-starts-to-flow-to-Gaza

Foto di manifestazioni in tutta Israele da Activestills.org:
http://www.flickr.com/photos/activestills/

La Coalizione delle donne per la pace si impegna attualmente in più azioni locali e internazionali. Prendete contatto con noi con le vostre idee, suggerimenti e informazioni sulle azioni che organizzate: yoana@coalitionofwomen.org


 


 

 Manifestazione al porto di Ashdot, 31 maggio 2010


 


 

 Manifestazione davanti al ministero della difesa a Tel Aviv, il 31 maggio 2010


 

La Coalizione delle donne per la pace è un movimento femminista contro l'occupazione e per una pace giusta

www.coalitionofwomen.org

Chi trae vantaggio dall'occupazione  www.whoprofits.org